di Simone Fornoni
Tra Caldara-Conti-Gagliardini-Kessie-Kurtic-Petagna-Gomez a Djimsiti-Maehle (o Zappacosta, fate voi)-De Roon-Koopmeiners-Pasalic (Ederson?)-Hojlund-Lookman ci sono 7 anni e almeno un paio di edizioni intermedie (Cristante, Castagne, Gosens) dell’Atalanta, a livello temporale, tecnico e in parte tattico. Nell’annata della Grande Transizione soprattutto anagrafica, i due davanti e il brasiliano, in mezzo o sulla trequarti, però, scorrendo la formazione della stagione ormai al gong la presenza degli ultratrentenni, forse privi di alternative considerate valide e pronte all’uso, sembra stridere con la necessità di svecchiamento indicata dal profeta in panchina. Bersaglio o protagonista non troppo involontario, per la seconda primavera di fila, del solito dilemma: resta o cede alle presunte lusinghe di un progetto ambizioso altrove, visto che a quanto pare qui gli avrebbero chiesto (chi? Quando? Come? Perché?) la qualificazione alla Champions League e lui, anche su questo, ha “un’opinione diversa dalla società“?

I nerazzurri non potranno barcamenarsi in eterno a sfogliare una margherita che a ogni soffio di vento da dichiarazionismo post partita pare allungarsi di un petalo, tante sono le variabili in campo. I tifosi, che adorano l’hombre miraglo di un ciclo frettolosamente dichiarato chiuso con l’ottavo posto dell’altr’anno e invece rivitalizzato dalla buona riuscita dell’originalissimo mix col passato in organico, se la prendono come sempre con la stampa dei “giornalai”. Eppure è Gian Piero Gasperini, in prima persona singolare indeclinabile, tra un “vedremo se potremo trovare un punto d’accordo” e un “qualcuno ci chiede la Champions, io non la penso così e per un allenatore è una situazione difficile”, ad alimentare dubbi sul suo prossimo futuro. A parte che il pubblico, più che il mister, tende a ignorare che è il club ad avere in mano, oltre al proprio, quello del tecnico, contrattualizzato fino al 2024 con opzione per un’ulteriore stagione, a mentre fredda bisogna ragionare intorno a tre punti: l’eventuale delega di responsabilità piene a Gasp stesso, assolutamente non padrone della scena a dispetto di quanto si pensi; lo svecchiamento di una rosa che riempie sempre di più l’infermeria e ha bisogno di energie fresche; un progetto coerente con gli investimenti fatti e quelli da fare.

L’immissione di 350 milioni nel capitale azionario alla fine dello scorso inverno del gruppo Pagliuca-Bain Capital, che ha di fatto e di diritto sostituito i Percassi nella gestione societaria pur lasciando loro quella sportiva, non è certo acqua fresca. Non lo è nemmeno l’esborso di 108 milioni per gli acquisti più recenti, anche se Musso e Boga a conti fatti non hanno reso per quanto sono costati. Perché il tecnico, sulla scorta della rivoluzione all’americana, non è stato investito di poteri da manager all’inglese, quindi col controllo delle operazioni di mercato. Decide lui e la dirigenza esegue. Lo faceva la buonanima Brian Clough negli anni settanta e ottanta, al Derby County e al Nottingham Forest portato sul tetto d’Europa, l’ha fatto Alex Ferguson al Manchester United. Qualcuno gliel’ha proposto, oppure no? Domanda di riserva: il grugliaschese, che a Bergamo dice di aver sempre vissuto da dio tranne il mese e mezzo iniziale, quando i giornali gli facevano le pulci, abituati com’erano al 4-4-2 di Colantuono o al 4-2-3-1/4-3-3 di Reja, sarebbe (è) davvero disposto ad assumersi questi oneri, perché le responsabilità pesano, rinunciando a tenersi i soli onori dei risultati straordinari ottenuti fin dalla primissima annata?

Pieni poteri significa che decide chi comprare lo stesso che prepara la squadra, la dirige e la schiera. Dall’allestimento allo spettacolo, insomma. Pieni poteri vuol dire anche fine di ogni possibile scaricabarile, delle diatribe vere o presunte e delle chiacchiere da carta stampata o web conseguenti. Da troppo, infatti, si respira la sensazione che fiducia e stima reciproca fra datore di lavoro e primo dipendente non bastino a prolungare a vita un accordo scritto nei fatti, più che nei rapporti personali, che Gasp comunque definisce umanamente a prova di bomba. In attesa di sapere se sarà lui a guidare la cabina di regia delle operazioni a tavolino insieme ai “due direttori sportivi” (parole sue) Lee Congerton e Tony D’Amico, ecco la questione del parco giocatori un po’ anzianotto. Degli Over 30, Sportiello, detto di passata molto meglio dell’argentino, si svincola ed è già del Milan; Zappacosta, superati i problemi al retto femorale del girone d’andata, s’è rivelato ancora da corsa provando perfino a imitare il rimpianto Gosens in zona gol (4, mica pochi); Toloi è un grande leader e fisicamente stavolta ha retto meglio di chiunque, ma forse verso i 33 non ha più il passo dei bei tempi; dei 4 gol in due della coppia da cumbia Muriel-Zapata, quest’ultimo infortunatosi come gli accade dal pre covid, ci s’è già soffermato chiunque e non resta altro da aggiungere. 

I giovani ci sono, ma faticano a farsi largo in mezzo agli espertissimi. All’interno del gruppo, diventato grande in tutti i sensi Scalvini, c’è un Okoli che scalpita e a buon diritto, visto che con lui titolare la difesa beccava molto poco col conseguente primato in classifica, alla quinta giornata a Monza addirittura in solitario. C’è Ruggeri che prima di fare crac non stava affatto deludendo. Certo, mancava Palomino, sospeso per il doping che non c’era fino a novembre, e il poi ripudiato perno Demiral all’inizio aveva la bua alle ginocchia che gli sarebbe tornata lungo la sosta per i Mondiali. Il ragazzo giunto quindicenne a Zingonia da Vicenza, centralone se mai ce n’è stato uno, sabato sera in casa dell’Inter ha servito da pendolino di riserva il possibile 3-3 all’imbambolato Hojlund, buono ma non buonissimo, chiuso da Dumfries nel recupero mentre forse gli risuonava sotto la volta cranica l’eterno paragone impossibile con Haaland. Soppy, insieme al berico nazionale Under 21 (mica bruscolini), è l’altro riapparso sui radar soltanto nella seconda metà di stagione, con la partitaccia di Lecce (quella dei nove undicesimi cambiati rispetto al match col Napoli) e il recupero del sorano a fare da spartiacque. Se non giochi e non hai il ritmo partita, poi finisce che ti rompi, anche se hai ventun anni. Puntuale come le tasse.

Che si vuol fare a Zingonia, dunque? Nella scorsa pausa tra l’esclusione dalle coppe e la programmazione del 2022-2023, il canuto sessantacinquenne torinese dalla voce soffiata e grattata più amato all’ombra delle Mura Venete aveva chiaramente esposto le sue idee: o si punta sui giovani senza pretesa di fissare obiettivi, oppure per centrarli vincendo si prendono elementi di caratura internazionale. Dalla finestra estiva sarebbe stato poi partorita la combo: Okoli, Scalvini, Soppy e Hojlund da una parte, Lookman dall’altra. Gli esiti mica sono da buttare via, tutt’altro. E se si ritornasse allo spirito e ai criteri delle origini del matrimonio Dea-Gasperini? Leggi, prestiti di ritorno cresciuti al Centro Sportivo Bortolotti o diventati qualcuno lì, assemblati con gente forte e scafata ma non in là con la carta d’identità, più qualche giovincello da rilanciare o su cui scommettere. Esattamente la lista della spesa indicata in premessa. Perché se hai in giro un portiere come Carnesecchi (Cremonese), un difensore come Cittadini (Modena), un esterno come Zortea (Sassuolo) e due attaccanti come Cambiaghi (Empoli) e Piccoli (idem, prima al Verona), richiamarli all’ovile è un dovere morale. Chiunque sarà il responsabile tecnico, una rivoluzione gasperiniana recuperandone le radici. L’accendiamo?

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