Dice lei, trentina, altina e mora: “Scrivi così bene, perché non fai un articolo almeno una volta al giorno?”. Penso: “Dire, fare, baciare, lettera o testamento?”. E ritorno bimbetto, a Lecco, nella mia via a giocare a nascondino fino a tardi, le prime luci della sera. La penitenza la deve fare chi è stato sotto di più. Questa volta, nei miei quarantacinque anni, scelgo lettera, la più consona, del resto mi è sempre capitato, va detto grossomodo, di scrivere, una delle tre cose che so abbastanza fare, insomma senza vergognarmi agli occhi del mondo. Le altre volte faccio fatica, dico, ad esempio, quando cerco di aprire una bottiglia col cavatappi o di ripiegare la coperta a righe per metterla nel vano del divano rosso fuoco o se mi fisso a cercare di raddrizzare le forchette storte nel cassettone in cucina con la forza del pensiero maya mentre sto giocando in sala con mio figlio Zeno a Fifa e io sono il Psg e lui il Perth Glory, l’ultima dell’Australia, e mi sta battendo 14 a 0.
Quindi, alla ragazza altina e mora, vada per lettera, l’ho già detto, raccontandole qui e ora e onestamente la mia giornata. Dal principio. Sono le nove e mezza e sono in un sogno fighissimo: un serpentone, penso un boa constrictor, da ore avvinghiato su di me con in bocca una mela, credo della Val di Non, dopo una notte passata a farmi venire un’ansia terribile, si è finalmente trasformato in una figa incredibile. Lì, in quell’esatto momento, mi sveglia mio figlio Vinicio, che sostiene io debba portarlo a scuola in quanto suo padre. Trattiamo sul pullman, gli prometto un cinquantino, ma lui non molla un cazzo. Manco ai cento euro si convince. Così, alle nove e quarantacinque circa, siamo in maghina. Non ho bevuto il caffè, quindi sono rimbambito, sbando, sbaglio due volte strada, il ragazzo me la mena sostenendo che “quando c’è la mamma va sempre tutto liscio, con te il ritardo è assicurato”. Annuisco in silenzio, evitando una sterile polemica col figlio sul genitore che sono stato, argomento che ci porterebbe sostanzialmente a un nulla di fatto. Recapito il ragazzo al Liceo Linguistico di Bergamo, lo bacio e gli auguro buona fortuna.
Arrivo in redazione. Chiedo del libro, “Capitan Marloc”, il mio quarto da scrittore, se è arrivato in sede. I colleghi constatano che in redazione non c’è. Guardiamo sul sito della Bartolini, consegna ancora spostata di un giorno. Tracciamo i pacchi, scopriamo che sono fermi nella sede di Liscate, a Milano. Chiamo il call center, una mezzorata di tasti dopo mi risponde un africano che non parla bene l’italiano. Io, deciso, forse troppo: “Posso venire a recuperare la merce?”. Lui, vago, dolcissimo, mi sa gay: “Non so, mandi domani una mail a info249@brt.it, martedì, massimo mercoledì, qualcuno le risponderà”. Incazzato perché la presentazione dei volumi è domani, invio la mail all’indirizzo che mi ha dato, esagero e ci infilo anche la Bibbia che a me porta sempre bene pur essendo cattolico solo dentro un larghissimo margine: “Se non ho i pacchi oggi, Dio aprirà un’altra volta le acque e saranno cazzi per tutti, in primis per il signor Bartolini, che m’immagino rosso di capelli come me e che, nonostante la somiglianza, dovrò denunciare in tribunale”. A sorpresa mi risponde al volo tale Antonello Litame, responsabile operativo della movimentazione della Bartolini. Mi dice, sostanzialmente, “ok, passi a prenderli entro le 12 e 30”.
Parto alle 11 e 35 da Bergamo, arrivo alla Bartolini alle 12 e 05 fottendo il navigatore di una decina di minuti grazie a una guida velocissima e spericolata, degna del miglior Schumacher, quello dei cinque titoli consecutivi alla Ferrari. Io con la Panda del 2007. Mi stimo e penso di iscrivermi alla prossima Formula Uno. E con questa idea nella capa salgo le scale dell’ufficio centrale della Bartolini. Gentili, stanno parlando del concerto di Bobby Solo, dico la mia in quanto fan di “Una lacrima sul viso”. Finito il dibattito, mi mandano al cancello 44 e lì ho una visione incredibile: centinaia di boliviani privi della loro Peroni da 66 che vagano in cerca di una consegna senza la minima speranza di trovarla. Una sorta d’inferno dantesco. Mi colpisce e cerco di aiutarli dalle fiamme del disordine, ma non mi considerano minimamente. Un’ora dopo uno di loro si impietosisce e mi porta i libri con un carrellino monco, vecchio, dell’Anno Sessantotto. Gli do la mancia. Gradisce. Mi accorgo di essere felice.
Carico, mi faccio male alla schiena e parto per Foresto Sparso, alle 14 e 30 sono dal Lochis, l’argomento dello scritto, una biografia, a consegnargli le sue copie. Lui è un angelo, come sempre, e mi sorride in quel suo modo accogliente e allo stesso modo affascinante. Gli consegno i libri, lo abbraccio e lo bacio. Esco dalla sua azienda e svengo dalla fame. Fumo una sigaretta e riparto verso il casello dell’autostrada. Ci arrivo con immane fatica. E’ chiuso per lavori. Mi incazzo. Bestemmio. Mi compare Gesù. Me la mena. Mi sento in colpa con Dio. Gli chiedo scusa. Faccio due preghiere di quelle giuste per sentirmi a posto. Tra mille cazzi e mazzi, tra cui il mio psicologo, il famoso Ze Ze, mai tanto malinconico e da tirare quell’attimino su, alle sette di sera sono in redazione.
Guardo il libro, “Capitan Marloc”, un miracolo a vederlo così bellino, scritto e impaginato da me, il sesto da editore. E penso “perché non scrivo un po’ di più, visto che mi viene ogni volta così, abbastanza decentemente e un sacco onestamente?”. La risposta, molto intima, la sa solo Antonello Litame, responsabile operativo della movimentazione della Bartolini a cui ho scritto un attimo fa parole dolcissime.
Matteo Bonfanti
Ps: il libro è un’idea diversa rispetto a una classica biografia, perché Gianfranco Lochis è una persona bellissima, unica, con cui confrontarsi. Se vi garba, comperatelo per Natale, è il racconto di una vita che vale, come è meravigliosa qualunque esistenza al mondo quando ci sono di mezzo un uomo e una donna in gamba