di Marco Bonfanti
Se uno pensa che tutta la sfiga dell’umanità è partita da un morso (quello che  Eva diede tempo addietro alla mela) e vede il morso di un Suarez, lo ridimensiona per quello che è, vampiresco afflato, e ci fa sopra una risata.
Tanto per dire che magari inquadrare meglio le cose in questi momenti di pianto greco sulle poco magnifiche sorti e progressive dell’Italia farebbe un gran bene.  Perché per me la cosa che è veramente mancata all’Italia calcistica è la gioia, e questa mancanza ha duramente influito sulla persa qualificazione e tutto il resto. Si fosse giocato di gioia e con la gioia, era molto più facile andare avanti, ed invece è stato tutto un continuo corrucciarsi, anche nello sterile e improduttivo gioco.  Emblema di questa Italia senza gioia è sicuramente Balotelli, che è perennemente incazzato e fa le facce e i gesti brutti, da incavolato perenne.  Allora io dico: ma se il calcio non ti piace, non ti dà felicità, produce in te solo rabbia e stringimento d’animo e di altro, che cavolo giochi a fare? Giochi poi, non lavori, non ti danni, giochi!
Io ho fatto quarant’anni il maestro perché mi divertivo, e se fosse venuto meno il divertimento, mi sarei posto seriamente il problema di cambiare aria. Divertirsi non vuol dire fare le cose superficialmente e non impegnarsi, vuol dire saper ridimensionare i problemi, trovare dentro quello che fai una ragione alta, un volo, una corsa, un profumo. Se sei sempre incazzato, io dubito che tu possa dare il meglio di te, perché questo meglio resta sepolto sotto le macerie del tuo buio interiore.
Anche il gioco dell’Italia è stato senza gioia. Perché la gioia nel gioco del calcio,  è velocità, affondo, invenzione, ubriacatura.  E’ morso, questo sì (calcisticamente si intende). E’ muoversi per il campo con un sorriso forte che spinge alla bella giocata, anche se inutile, ma bella da vedere e da ricordare. Invece abbiamo messo in campo un gioco da vecchi, gioco di chi si deve risparmiare perché quel che aveva da dare l’ha già largamente dato. La gioia è il lancio che trafigge, è tutto campo, è amico, è ritrovarsi insieme un po’ più avanti.
Guardate le squadre che stano scalando il mondiale e ci trovate questo, il calcio verticale, che è scommessa su dove il pallone andrà e come ci andrà. Per questo naviga forte il Sud America, che emerge sempre più in una gioia sociale contro le disuguaglianze, e affonda invece un’Europa che si mena tutti i suoi vecchi problemi, senza un lampo nuovo e risolutivo.
E adesso che si torna a casa e si aprono i mille problemi di un calcio decadente e si cercano e si cercheranno le mille ricette per tentare un’ improbabile resurrezione del Lazzaro calcistico, noi proponiamo una cosa assai semplice: rimettere al centro del gioco il gioco stesso.
Io penso che questi mondiali, Italia a parte, siano appassionanti soprattutto perché si segna molto, giusto perché il calcio è, in primis, il gol.
E si segna molto perché è il gioco che è ritornato al centro, quindi si cerca la finalizzazione e non il possesso, spendere e non risparmiare, come si deve al gioco, se gioco è.
Perché se tutto il resto non è proprio noia, quasi lo è. E’ inutile, a mio parere, trovare misure per ridare al calcio un’antica dignità, se non si parte dalla ricerca di un modo diverso di vivere l’evento che rischiari la passione, anziché, come ora,  oscurarla. Se dirigenti, allenatori,calciatori e vari addetti ai lavori si dessero una bella ridimensionata (magari anche economica) e riuscissero a far passare il messaggio che siamo semplicemente di fronte ad un incedere gioioso, forse tutto l’ambiente, tifosi compresi, tenterebbero altre vie di passione.
Come si diceva in un altro scritto, la via dei pretesti. Il pretesto di un calcio che dà gioia e che ha gioia.
In cui, parafrasando un grande filosofo, il senso è giocare, e vincere o perdere sono soltanto accidenti del caso.