di Simone Fornoni

Adesso c’è chi pretenderebbe pure di spingere i bergamaschi a denunciarlo alla Procura della Repubblica competente. Guardare lo screenshot del cinguettìo in fondo all’articolo per credere. Come se avesse commesso un reato. Coronavirus e isteria collettiva, ecco l’ennesima puntata di una telenovela dell’orrore misto a brama di giustizia fai da te. Dopo le sue rivelazioni alla Gazzetta dello Sport pubblicate nell’ultima domenica di maggio, per Gian Piero Gasperini s’è ufficialmente aperta la fase del processo. Mediatico, via social e soprattutto Twitter, con signore e signori Nessuno – con tutto il rispetto per lo pseudonimo di Ulisse al cospetto di Polifemo – inveleniti contro l’untore sulla base di elementi probatori pari all’angolo piatto.

Tra ieri e oggi, e siamo soltanto al quarto giorno del post “confessioni choc”, come titolerebbero gli espertoni del click-baiting, si sono spesi nel ruolo di avvocati difensori prima l’onorevole Daniele Belotti, supertifoso dell’Atalanta, amicissimo della Curva Nord e quindi bersaglio fin troppo comodo dell’accusa di essere di parte, e quindi il giornalista Xavier Jacobelli, un altro che agli occhi di una platea di lettori-boccaloni sempre più sospettosa e gonfia d’odio ha la colpa di essere bergamasco e atalantino. Stamattina, su Tuttosport, il ribaltamento della tesi valenciana: il soldato Gasp non aveva sintomi alla vigilia della Champions né durante, gli sono venuti quattro giorni dopo esser tornato, quindi cinque dopo il retour march degli ottavi. E se quassù c’era il lockdown, laggiù c’erano le Fallas e 48 ore prima anche la Festa della Donna con centinaia di migliaia di persone in strada, senza contare i tifosi locali assiepati fuori.

Lungi dal voler percorrere il sentiero impervio delle accuse a dito puntato e a specchio riflesso, che potrebbe ricordare il giochino a scaricabarile reciproco degno dei bei tempi dell’asilo, vale comunque la pena di chiedersi perché la teoria jacobelliana sia da considerare tanto assurda, al cospetto di quelle usate contro l’Atalanta, Gasperini e i bergamaschi in genere, nel mirino dei delatori complottardi da tastiera come presunti responsabili del contagio di mezzo mondo. Comunicando i propri positivi a metà marzo e oltre, i Pipistrelli avevano scritto “il 35 per cento dei presenti nella gara d’andata a Milano”, salvo cambiare idea con la giravolta della domenica sera dopo aver letto la Rosea. Se il nemico, poco sportivamente visto che sul campo ne ha prese un sacco e una sporta senza alcuno spazio per recriminazioni di qualsivoglia genere, riesce a sostenere due tesi opposte nel giro di altrettanti mesi (abbondanti) per trovare il capro espiatorio per gli infetti di casa sua, allora perché dovrebbe essere per forza sbagliato sostenere che il soldato Gasp, calatosi l’elmetto senza sintomi (febbre e dispnea, lo diceva l’Oms, non il virologo di Bottanuco) a bordo campo il 10 marzo, si fosse ammalato a Valencia?

Ovviamente c’è chi vorrebbe punire lui e la Dea escludendola dall’Europa. Magari fin da subito, inventandosi mosse ufficiali del Valencia presso l’Uefa tanto labili e ipotetiche da non aver prodotto lo straccio d’un documento. Per forza, non c’è alcun reato e quindi nessun crimine può essere stato commesso. A meno che non lo sia andare a ritroso nel tempo, durante un’intervista, confessando le proprie paure. “Processare Gasperini sarebbe una follia, suppongo che nessun pubblico ministero voglia perdere tempo”. Parola di avvocato. Vero, non d’ufficio o metaforico: ci sono giornalisti che non sanno leggere il contenuto di un pezzo, pronti a dire che il Gasp andò in panca consapevole di avere il Coronavirus, e giornalisti abituati a leggere perfino gli articoli dei decreti magari osando pure consultarsi con un principe del foro. Diciamolo ai novelli accusatori da social, che vorrebbero il soldato Gasp alla sbarra, anzi davanti alla corte marziale. Smettiamola, su. E riprendiamo a vivere, anziché a detestarci senza prove perché potenziali assassini.