Che poi alla squadra della mia città, quella del posto dove sono nato, con lo stadio vicino al mio barrio, dove da bimbetto ho pure giocato, e che da ragazzo faceva tremendamente pena, ma schifo che più schifo non si può, ci tengo un sacco anche se in questa mirabile stagione ho visto solo la partita di oggi, l’epilogo trionfale col Foggia. Ogni lunedì chiamavo mio babbo, Marco, il mitico maestro di Acquate, e gli chiedevo un po’. Lui, che è da sempre tifosissimo, in tribuna con mio zio Beppe da quattro decenni, nella gioia, poca, e nel dolore, immenso, minimizzava, un po’ per scaramanzia, tanto perché l’uomo è nato in centro, insomma è un lecchese doc, “Matti, l’hai vista?”, “no, papà, ho letto, che impresa…”, “ma va, è solo che quest’anno abbiamo un po’ di culo, credimi: domenica prossima l’avventura sarà finita”. Del resto noi di quel ramo del Lario siamo così, ci sentiamo un po’ sfigati, più tristi dei cugini comaschi, parenti lontani e poverissimi della meravigliosa Bergamo europea, che ammiriamo anche per via dell’Atalanta, con Milano manco a parlarne, non tentiamo neppure il paragone. Difficile quindi che ci lasciamo andare all’entusiasmo. Siamo “schisci”, siamo donne e uomini di confine, alcuni frontalieri, impossibile che pensiamo al sole, siamo concentrati sulla pioggia “perché va così che piove ancora e adesso è ufficiale: siamo il pisciatoio d’Italia”.
Eppure c’è quest’annata trionfale e inaspettata, squadra come al solito, una serie di scappati di casa, un improbabile mix di vecchi apparentemente finiti e di giovani speranze al terzo tentativo dopo aver fallito clamorosamente i primi due, una rosa perfetta per rappresentare i concittadini, gente di talento, ma che si ferma lì, perennemente nel vorrei, ma non posso. Ieri ero a Iseo, per carità un gioiellino, in un incredibile tutto esaurito, che era difficilissimo sedersi a magnare, e mi dicevo tra me e me: ma se ci tirassimo insieme, copiando i laghee bresciani, portando al nostro capezzale tre artisti eccezionali e destinando un posticino alla movida, cosa avremmo da invidiargli? Potremmo fare come loro, diventare ricchi vivendo di quello, il colpo d’occhio, le montagne che si gettano a picco sul lago.
Parole in circolo, che sento da quando sono nato, e io stesso ventitré anni fa me ne sono andato venendo qui, a Bergamo, a quell’oretta di distanza piena zeppa di aerei, di imprenditori, di giornali e di opportunità, e nonostante sia diventato un cantautore, un giornalista e adesso uno scrittore famosino, non è che mi sia mai minimamente impegnato perché la mia Lecco facesse il salto, quantomeno per via del Manzoni, il padre della letteratura italiana, non il primo bigolo, un balzo atteso mezzo secolo dai suoi abitanti. Che, però, va detto per inciso, restano le persone che amo perché è gente di cuore, accogliente e generosa. Ero qui in redazione, a impaginare il giornale, e guardavo il post partita sui social, c’erano Andrea, Matteo, Barbara, Chiara, Luca, Robin, Ricki, Nicola e Gabriele, i miei amici d’infanzia, a far casino lungo il lago, e io pensavo a quanto ognuno di loro in questi anni mi abbia aperto ogni volta la porta, festeggiandomi, ridendo con me a crepapelle, sostenendomi in qualsiasi mio tentativo, abbracciandomi stretto stretto nelle sere in cui torno a casa dai miei. E, forse, questo incredibile successo, questa promozione in Serie B inaspettata, aspettata cinquant’anni e più che meritata, è l’inizio di qualcosa, la volta che questa mia bellissima città, con la sua gente straordinaria, decide che è venuto il momento di farsi scoprire dal mondo, senza paura, proprio come il Calcio Lecco, una formazione perennemente sfavorita che alla fine ha fatto innamorare tutta Italia. Dei tifosi ora non parlo, mi riservo uno scritto a parte, perché immensi, del resto “la Lecco bene” è un colpo di genio paragonabile solo al nome di una tv, Tele Lecco…
Matteo Bonfanti