Come una volta a cena con mio babbo dopo essermi spaccato in moto una gamba, un braccio, il naso e altre mille ossa che ci sono sul viso di ognuno di noi: “Sapessi, figlio mio… E’ il peggio che può succedere. Se sto male io, non è importante. Ma se all’ospedale ci sei tu e manco mi sanno dire se domani ci sarai, è davvero qualcosa di brutto brutto, di orribile, che a me, che sono tuo padre, toglie all’improvviso l’intero respiro. Smetti di rischiare la vita, perché c’è un ordine, tu, bambino mio, non puoi morire prima di me, che sono tuo papà, altrimenti a me e a tua mamma salta il cuore. Te ne andrai solo dopo di noi. E devi promettermelo”.
Così ieri sera, dieci anni dopo: erano le sette, ero a prendere le sigarette, una pausa tra un lavoro e un altro, pagine pubblicitarie da inventare e poi da costruire per il giornale di lunedì, Costanza mi ha chiamato dal pronto soccorso. Lì, nell’attesa, con Vinicio, il mio primo, grande e forte, una delle mie due cose belle: “Sono al Papa Giovanni. Vini aveva male a una gamba, poi ha fatto la pipì nera, col sangue dentro. Lo visitano adesso. Ti dico poi…”.
E sono passate tre ore e nel frattempo ho pregato tanto e ho promesso a Dio l’inverosimile, “tre Ave Maria, cinque Gloria al Padre, sette Padre Nostro in ginocchio due volte al giorno, la sera e la mattina. Smetto con le parolacce, sgrido chi bestemmia perché guido male, ma tu fai subito lo scambio, ammali me, che ho già vissuto tanto e così a lungo, e lasci sano lui, il mio Vinicio”. Finito, il Signore mi ha ascoltato, che si vede che ieri aveva tempo, non era impegnato a far fare la pace nei posti dove adesso si fa ancora la guerra. E alle undici Costanza mi ha chiamato: “Non gli hanno trovato niente di grave. Nulla di cui preoccuparsi”.
E vabbeh, Vinicio non ha niente di che, solo il casino della smisurata crescita dei suoi giganteschi quattordici anni. La diagnosi anche no, la tengo per me, la lascio qui tra le mie dita. Resta scrivere questo viaggio unico, che è essere genitore, qualcosa che dà un sacco bene e a volte moltissimo male, e che mi fa pensare ogni volta, convinto: “Arrivasse la malattia a doverne prendere uno qui e ora, scegliesse di tagliare a pezzetti me, mai Vinicio e Zeno, mai la loro mamma. Sarebbe un regalo”.
Lo pensa ogni padre, è quello che ha nell’anima qualsiasi madre. E normale, non c’era manco bisogno di raccontarlo, ma a volte scrivo per liberarmene e per sentirmi accanto.
 
Matteo Bonfanti