Mio figlio Zeno, che non è un super eroe della municipale, ma un normale ragazzo di tredici anni, con le miserie e con le grandezze della sua età, ieri pomeriggio ha avuto un attimo di malinconia della sua infanzia e si è rimesso a giocare a Fortnite. Era on line, faceva parte di una squadra impegnata a salvare il mondo dall’attacco di pericolose creature aliene. A un certo punto uno dei suoi soci, un ragazzo incontrato in internet, si è messo a pronunciare una serie di frasi razziste: “Per fortuna che voi due non siete due negracci di merda, altrimenti pianterei lì di giocare. Odio quegli schifosi negri di merda”. Zeno, che è bianco come un cencio, ma cadaverico, azzurrognolo da quando è nato, l’ha subito bloccato: “Oh, guarda che io sono di colore, i miei arrivano dal Senegal…”. Il giovane razzistello ha subito chiesto a Ze di dimostrargli le sue origini parlando un po’ di senegalese. E lui ha tirato fuori dal cappello le tre parole che conosce in francese: “Je suis Zen Van Bunfan”. Poi Zeno ha spento, convinto che passare del tempo anche virtuale con un tipo così non gli avrebbe dato nulla, solo un’immensa tristezza addosso.
Ora Zeno è mio figlio, con ogni mia magagna, a tredici anni ancora a dormire con la sua mamma per via dell’immensa paura della solitudine che non ci lascia mai, ma pure con i valori che gli ho passato, primo tra tutti quello di battersi contro ogni forma di razzismo e di discriminazione. Qualche mese fa ha mollato per sempre il suo migliore amico dopo aver sentito un paio di battutacce sugli omosessuali. E’ così, uguale a me, non transige. Sente il razzismo come qualcosa di inaccettabile.
Anni fa ero in Riviera. Con il mio gruppo, i Maledetti, cercavamo ogni data possibile per campare un paio di mesi al mare, suonando qualsiasi cosa, persino il liscio col cd in sottofondo e noi cinque in playback, a fare finta. Finito un concertino pessimo in un albergo che pareva una casa di riposo, la proprietaria si era avvicinata a noi per pagarci e per farci un complimento a dir poco maldestro: “Bravi, bravissimi, mica come quei negracci che infestano le nostre spiagge con i loro bonghi. Tornate settimana prossima?”. Ed eravamo tornati, dipinti di nero dalla testa ai piedi. E coi bonghi.
Questa mattina mi sono alzato presto per leggermi un altro po’ della storia di Seid, una vicenda che ieri pomeriggio mi ha toccato mettendomi una fortissima tristezza in fondo al cuore, anche per via dell’età del ragazzo, così vicina a quella dei miei figli. Di nuovo c’era solo un’Italia spaccata in due, una parte era arrabbiatissima con l’altra per aver legato il suicidio del giovane al fatto, raccontato proprio da Seid in una lettera, che in Italia si sentiva discriminato per il colore della sua pelle. E io non capivo il senso di tutte queste parole, anche scritte da persone che stimo. Magari mi sbaglio, ma mi sembrava che si stesse ancora a speculare sulla vicenda, magari senza farlo neppure di proposito, come fatto ieri dall’altra fazione, questa volta facendo passare l’idea che se Seid non si è ucciso per il razzismo che ha subito, allora il razzismo in Italia non esiste e siamo tutti a posto e chi dice che è un problema è perché ha dei problemi lui, cosa che hanno scritto proprio a me, sotto a un mio articolo.
Problemi, tra l’altro, va detto che ne ho. Soffro d’ansia, vado ormai da dieci anni dallo psicologo, un minimo l’ho imparato e so benissimo che se un giovane decide di fare un gesto tanto estremo non lo fa per un solo motivo, ma per una serie di angosce insormontabili, comunque strettamente personali, solo sue e che nessuno di noi ha il diritto di commentare.
Di Seid resta però la bellissima lettera, che dobbiamo mettere al centro del nostro dibattito, perché parla di un’Italia che soffre estremamente di questa terribile malattia che è il razzismo, un grido d’allarme che dobbiamo ascoltare ogni giorno se vogliamo che questo Paese diventi migliore, più accogliente, senza più forme discriminatorie verso qualsiasi persona. Domani vorrei che il nostro tema fosse come superare questa brutta cosa, un limite alla felicità di tutti noi, qualcosa che ha fatto soffrire Seid e che continua a far star male un sacco di gente.
Matteo Bonfanti
Nella foto, proprio di un anno fa, io e Zeno, che non vogliamo un’Italia razzista