Ho letto in un articolo che c’è uno studio che denuncia il fatto gravissimo che in Italia non si canta più. Cinquant’anni fa lo si faceva sempre, nei campi, a casa, nei pranzi famigliari, o all’oratorio accompagnati da una chitarrina, e, secondo il collega, era una buona cosa. E allora mi chiedo spesso l’effetto che faccio ai bergamaschi che m’incrociano lungo la strada, se mi stimano perché ci credo ancora, o se, invece, mi vedono un po’ toccato perché fuori tempo massimo. Mi spiego: in maghina sento musica italiana e sono figlio di Marco, uno che da piccolo me le ha insegnate tutte grazie alle sue compilation, cassette titolate Varie 1, Varie 2, Varie 3, fino a Varie 139 o giù di lì, così canto, raggiungendo il mio apice quando Radio Italia passa “Lascia l’ultimo ballo per me” nella versione di Shel Shapiro, insomma recitata in quell’italiano fichissimo per via dell’inflessione inglese. Mercoledì tornavo da Sanpe dopo aver portato mio figlio grande, Vinicio, e la sua fidanzata, Caterina, alle terme. Alla radio c’era “Ma che freddo fa” di Nada e io gridavo a squarciagola sulla Pandona Aranciona a Metano: “Basterebbe una carezza, per un cuore di ragazza, forse allora sì che t’amerei. Cos’è la vita, senza l’amore, è solo un albero che foglie non ha più”, in modo molto forte, improvvisando pure dei coretti che nell’originale non ci sono, a tratti ballando con il pedale del freno, dimenandomi e provocando pericoli in serie lungo la carreggiata. Nell’esaltazione accompagnavo la mia voce battendo a ritmo sul manubrio come fosse un tamburo, rischiando di romperlo visto che la mia vettura è del 2007. Non ero un bel vedere, parevo un drogato. Me ne sono accorto a una delle dodici rotonde della felice provinciale della Val Brembana, quando mi sono imbattuto in un altro come me, va bé, quell’attimino più distinto, che su una vecchia Polo Volkswagen, forse verde metallizzata, con i finestrini aperti, si sgolava su “Sally” di Vasco Rossi. Ho pensato: “Quello sembra matto, ubriaco o fumato”. Ma era semplicemente simile a me, io che in quel momento ero intento in un “Riderà, riderà, riderà” di Little Tony, interprete che trovo irraggiungibile. Chissà cosa avrà pensato. Da parte mia non ho cercato di fermarlo tagliandogli la strada per conoscerlo e per scambiarmi il numero, nonostante l’uomo mi sarebbe sicuramente venuto utile per un po’ di karaoke all’Olimpus. L’ho lasciato nel suo viaggio, apprezzando le sue qualità canore, con stima perché difendeva come me questa cosa del canto alla cazzo in Italia.
Matteo Bonfanti