Mi alzo nonostante sia sabato, quindi nella mia mattinata di estremo riposo, che solitamente passo sul divano in stile Dead Man Walking, un uomo simil cadaverino in vestaglia, che cammina solo ed esclusivamente verso il bagno per svuotare l’acqua al merlo quel paio di volte giuste e sacrosante. Sono felice, orgoglioso del mio operato, insomma nella piena soddisfazione di aver raggiunto nella notte, va detto a fronte di estremi sacrifici, l’obiettivo che mi ero prefissato in queste prime settimane di dicembre, ossia l’intera visione di Squid Game, argomento centrale a casa Bonfanti, che ora mi vedrà dire la mia, senza quel fastidio che mi dà essere escluso dal dibattito del comitato centrale radunato a tavola intorno alle otto di sera.
Ma la notizia non è questa, è che, subito dopo aver bevuto il caffè, trovo la forza di leggere la selva di messaggi che ho dentro al mio cellulare, il famoso Iphone dell’anteguerra col vetro spaccato e la batteria di un criceto russo rimbambito perché utilizzato come cavia per sperimentare una serie di nuovi vaccini. Gran parte degli sms sono dei due gruppi calcistici che rallegrano i miei martedì e i miei giovedì al campo di Orioland dalle nove alle dieci di sera, le due ore in cui mi sento un misto tra Gattuso e Ronaldinho.
Ma ce ne sono altri cinque, tutti di persone che mi vogliono bene. Pur di età, ceto, censo e sesso diversi, concordano su una cosa: “Sei strambo forte”. E lì mi viene in mente la canzone di De André, che metteva ogni volta mio babbo quando eravamo in Falghera, nel lettone, e a me terrorizzava a muerte, un brano stupendo, ma nero come la notte, e che a una certa dice proprio “il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano”. E la mia testolina inizia i suoi soliti viaggi mentali tra l’universo e il cuore. Mi immagino all’improvviso in una trattativa infinita in cui gli sceicchi del Paris Saint Germain vogliono la Valeria, appunto mia mamma, e sono pronti a sborsare i 222 milioni che hanno dato al Barcellona nell’agosto del 2017 per avere Neymar. Ci penso quell’attimo, ma poi mi dico: “No, la Vale manco per tutto l’oro del mondo. Cosa farei nei miei lunedì in cui prendo la maghina per sbaciucchiarmela fino in fondo davanti a un piatto di tortellini?”.
Mi sento meno strano, tiro un sospiro di sollievo e in quel mentre arriva Zeno, il mio secondogenito, da scuola. Il giovane oracolo, omino dalla saggezza orientale non comune nonostante sia nato a Bergamo e infili “Pota, figa” ogni due per tre, mi vede inquieto e mi chiede: “Babbo, cos’hai?”. Da padre sento che non devo nascondergli i miei pensieri e vuoto il sacco: “Ze, ma tu mi vedi strano?”. E lui, con la sua solita onestà: “Stranissimo, hai presente come sono i genitori dei miei compagni? Tu sembri una rockstar dell’anno Sessantotto”. E io: “Ah cazzo, quindi che famo?”. E Zen, per chiuderla che ha una fame boia, e che, nel frattempo, ha messo l’acqua a bollire per papparsi al volo la sua razione di noodles: “Sì, ma anche a me dicono che sono strano. E’ bello, siamo belli così, siamo fighi, siamo due strani”. E lo guardo ed è davvero un tredicenne stupendo, pure adesso che si è fatto brizzolato come Ravanelli ai tempi della Juve, e allora gli propongo il nostro selfie quotidiano e lui apparecchia nella sua camera per fare le migliori quattro immagini possibili. Scatta e riscatta, si prende cura di me, mi sento riconoscente, ma lui smorza subito il mio entusiasmo: “Sono venti euro, cinque a foto. Appena me li dai, te le giro su Whatsapp”. E penso che sono un padre strambo che ha fatto un figlio strambo e che un giorno avrà un nipote strambo e che, se gli va bene, da vecchissimissimo conoscerà anche suo pronipote, un altro strambo. E da questa cosa non se ne esce più e bisogna rassegnarsi e accettare di essere nati strambi, evitando, magari, di vendere la propria mamma a un nano o di taglieggiare il proprio povero babbo per una manciata di foto.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io e Ze, due tipi strani