Normalmente gioco a pallone. Lo faccio da quando ho sei anni. Quindi mi tengo abbastanza in forma, intorno ai settantacinque chili quando aggiungo la partitella del sabato pomeriggio a quelle del martedì e del giovedì sera, oppure se faccio solo due sfide sono quasi sempre sugli ottanta secchi, gestibilissimi con mia mamma e con gli altri, tirando indietro quell’attimo la pancia. Come tutti ormai sappiamo, in questo periodo noi amanti del pallone siamo fermi. In campo ci vanno solo i campioni, i ragazzi dalla Serie A alla Serie D, e io, che sono un quarantaquattrenne che se la spassa a fare il fenomeno del fubal con gli amici in tornei fulminei e abbastanza fantozziani, al momento mi trovo costretto a guardare malinconicamente le mie scarpette appese al chiodo. Le nostre partite mi mancano da morire, lo scrivo ogni settimana, ma non è quello il tema di questo articoletto.
C’è che dopo un anno nella quasi totale inattività fisica sono ingrassato la bellezza di quindici chili, toccando il fondo mercoledì sera, quando con immenso coraggio e rinnovato entusiasmo mi sono messo sulla bilancia. Segnava novantadue, il mio record storico, parevo un Homer Simpson rosso di capelli. Come sono arrivato a tanto? Mantenendo lo stile di vita di prima, quello di quando facevo sport, ossia colazione col caffè doppio al Chiringuito, quindi pizza del Fassi in pausa pranzo, fame atavica alle quattro e conseguente panino col tonno, il pomodoro e un chilo di maionese al Blu Puro, aperitivo con due Tennentsine e centosettantasei pistacchi un attimo prima delle sei di sera. Poi a cena un pasto frugale, giusto due cazzate, a volte anche solo un piatto di pasta, ma con la birrozza 8.6, quella rossa, buonissima e ipercalorica. Quindi la notte, passata interamente o quasi a frugare nel frigo, spazzando qualsiasi avanzo lasciato dai miei figli, spesso grossi pezzi di focaccia di Recco, la preferita di Vinicio, la pasta col pesto di Ernesto di mezzogiorno, fatta saltare in padella, potenziata col gorgonzola, con la panna e col grana, o le lasagne di mia mamma, fenomenali, ma che ingrassano solo a guardarle, figurarsi a papparsi mezza teglia come faccio io, di solito, intorno all’una e trentacinque circa. Va detto che loro, dico le lasagne, con me non si sono mai comportate bene, spesso chiamandomi all’appello sul più bello, per darmi la botta di grazia prima del sonno dei giusti: “Matty… Matty… Siamo le tue lasagnette… Avvicinati, dai. Dormono tutti, vieni qui che non ti vede nessuno… Non fare il timido. Siamo davanti a te, nel forno. Siamo la tua infanzia felice, ti ricordi quando la nonna Pina ci cucinava solo per te? E poi siamo sane, fatte con tutti i prodottini migliori possibili, la carne del macellaio di Valgre, i pomodorini dell’orto di Erni, la farina di altissima qualità del Filet. Sei buono, non farci uno sgarbo. Non serve. Mangiaci… Divoraci per favore. E fai la scarpetta col pane per tirare su anche il ragù. Coraggio, ciccino nostro, è tutta salute. Non ti facciamo del male, anzi…”. E così, pieno come un uovo, ecco il bicchierozzo di Amaro del Capo per aiutare il mio corpo nella difficilissima e impegnativa digestione notturna, la mia via all’addormentamento istantaneo, subito con sogni bellissimissimi, insomma in Tecnicolor, spesso in stile paradiso islamico.
Va beh, apro il capitolo mia mamma, Valeria, donna meravigliosa, simpatica e generosa, ma dal comportamento assai controverso riguardo al mio nutrimento. La Vale, adesso che deve starsene ogni pomeriggio a casa, sostanzialmente fa da magnare davanti alla televisione. Ma non piatti normali, semplicemente divini, tortellini, tortelloni, gnocchi fritti, lasagne, polpettine col sugo e cotolette alla milanese sottilissime. Le sue porzioni sono quelle di una donna bolognese. Passo da lei e mi dà i tortellini, un chilo secco il lunedì pomeriggio, alle quattro, per merenda, col brodo di una gallina che più grassa non si può. Mi sfama, regalandomi almeno tre teglie di roba da portare a Bergamo. E nel suo pacco dei viveri c’è sempre il limoncello fatto da suo marito Ernesto, zuccheri su zuccheri che vanno giù meglio dell’acqua. Mi ingolfa e dieci minuti esatti dopo me la mena: “Sei grasso che non ti si può vedere. Non ci si può ridurre così, a quarant’anni. Guarda tua sorella, lei sì che ci tiene. Mi vergogno di te. Pentiti”. E chiama a Bologna, sua sorella, la Cri, sua mamma, la Pina, per comunicargli che sono diventato un maialone rosso inguardabile. Ora io mia mamma la amo. Ma davvero. La reputo una donna intelligentissima. E quindi mi colpisce che non capisca che sono quello che mangio, ossia quello che fa lei per me mentre guarda Derrick, prelibatezze in abbondanza per il suo bambino. Quindi, o la smette di cucinare in questo modo paradisiaco oppure mi accetta con i chili di troppo. Così, invece, è sempre fare il frocio col culo degli altri, che non so se c’entra, ma mi piaceva infilare una frase ad effetto per creare un po’ di suspence tra i membri della comunità Lgbt.
Comunque il tema non era manco fare polemica con la mia adorata mamma. Era solo comunicare a tutti che ho un mal di gambe bestiale perché, assalito dai sensi di colpa, giovedì mattina mi sono messo dell’idea di perdere sette chili in sette giorni come nel famoso film, ovviamente cannando il periodo, perché il piano è iniziato mentre c’era l’abbinata Pasqua e Pasquetta a casa di mia mamma. Sto facendo quattro ore di sport al giorno, in ordine, da recitare in stile fantozziano, intendo con quella voce: corsetta mattutina da via Santa Caterina ad Almé, quindi camminata verso l’ufficio, che sta al numero 27 di Piazzale San Paolo, in ultimo, non certo per importanza, la montagna, con le cime di Consonno e della Maresana già conquistate. Ho perso quattro chili, questa mattina pesavo 88, mi sento triste e stanco, confuso, mi accorgo che a volte mi nascondo a mangiare le polpettine che trovo nel frigo, ottocento fatte dalla Vale qualche giorno fa mentre Derrick scopriva il solito assassino biondo come la birra. Sono dell’idea che mi massacro per un mese, tentando settimana prossima anche qualche giorno di digiuno, per poi tornare alla totale inattività fisica e al papparmi cose di continuo appena tornato in forma. Trenta giorni di sacrifici e fatiche immani seguiti da altrettanti nello sfascio totale. Vi dirò come va. Ovviamente la speranza è che prima o poi ci facciano tornare a giocare così la pianto di fare ogni volta ste cazzate per apparire, quantomeno fisicamente, normale.
Matteo Bonfanti
Nella foto l’ultimo tratto verso l’ufficio fatto oggi di corsa, alzando le braccia come un vero campione del podismo, tra i sinceri applausi dei colleghi