Signor Presidente, sia chiaro che io non ce l’ho con Lei, che non conosco personalmente e che magari è pure una brava persona, che le cose che fa, le fa perché tiene alla nostra salute. Se le scrivo non è per criticarla, semplicemente per avvisarla che ho appena infranto tutte le regole che mi ha imposto da un mese e mezzo, senza neppure chiedermi cosa ne pensassi. E può andare a vedere nei suoi castelli di carta che io, Matteo Bonfanti, nato a Lecco il 15 febbraio del 1977, non sono né un noto criminale né un pericoloso sovversivo. Sono solo un tranquillo giornalista sportivo, che non ha nessun precedente penale, che ha sempre pagato le tasse, e che, se proprio deve fare polemica, la fa contro l’arbitro che ha fischiato un rigore per un dubbio contatto nell’area dell’Atalanta.
Signor Presidente, questo pomeriggio ho fatto finta che Lei non esistesse. E ho portato i miei bambini, Vinicio e Zeno, che ormai sono due ragazzi, a camminare nella natura. Abbiamo sforato il suo limite di trecento metri e siamo andati fino alla fine della ciclabile di via Baioni, un posto che le consiglio di visitare il prima possibile perché è uno dei pochi luoghi al mondo che a me fa bene sia all’anima che al cuore. Abbiamo tolto le nostre mascherine e ci siamo stesi al sole, su quel meraviglioso e infinito campo di margherite alle porte di Bergamo, la mia bellissima città. Sentirci liberi ci ha fatto venire i brividi nella pancia e abbiamo iniziato a rotolarci, facendoci il solletico. Dopo secoli non riuscivamo a smettere di ridere. Poi ci siamo messi a chiacchierare fitto, col naso all’insù, guardando il meraviglioso cielo azzurro di Lombardia. Con Vinicio abbiamo ripassato la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa, che domani la prof lo interroga. Con Zeno siamo stati semplicemente abbracciati, i nostri corpi stretti stretti, mentre Vini ci parlava dell’arciduca Francesco Ferdinando, di Lenin, di Trotzky e di Stalin. Quando abbiamo visto spuntare la prima stella, eravamo indecisi se fermarci a guardare la luna o prendere la via di casa. Abbiamo deciso di tornare, ma sia chiaro, Signor Presidente, che la nostra scelta non è dipesa dai suoi decreti. Semplicemente eravamo un po’ stanchi.
Signor Presidente, voglio che Lei sappia che io alle regole ci tengo. A distanza di vent’anni, ancora mi sento in colpa perché da ragazzino ho rubato centomila lire dal portafoglio di mia mamma, Valeria, che è una professoressa, che mi ha insegnato che si è uomini se si pensa anche agli altri, non solo a se stessi. E’ la libertà, la mia finisce dove inizia quella del mio vicino. Oggi io, Vinicio e Zeno non abbiamo messo in pericolo nessuno. Resta, comunque, che infrangere i suoi provvedimenti mi è costato, mi sembrava ingiusto per gli altri che sono piantonati in casa. Ma mi sento orgoglioso di averlo fatto, perché prima di essere un cittadino o di essere un giornalista, io sono un padre.
Signor Presidente, Lei non sa come ho visto ieri sera i miei ragazzi. Spaventati a morte dalle sue parole in televisione, avevano perso il loro colore, quello della gioventù, e la loro voglia di vivere, così forte alla loro età. Si sono rifiutati persino di venire giù con me nel nostro cortile, pochi metri di cemento. Ed era tardi, ma non avevano sonno. Stare ore e ore davanti al computer non gli fa bene. Signor Presidente, ma come si fa a togliergli anche quello? La scuola è on line e i loro amici sono solo sul telefono, accanto in lunghissime e dolcissime videochiamate. Io e la loro mamma, Costanza, ce la mettiamo tutta per non farli stare attaccati alle tecnologie. Ma non si può obbligarli ai giochi in scatola o alle carte tutto il giorno e, quando scendiamo, una vicina si arrabbia. Sa, Presidente, non abitiamo nella sua villa, ma in un complesso popolare, e non è facile, ci sono tante anime diverse.
Signor Presidente, le ho detto tutto, ora faccia quello che vuole, davvero. Se le servirà darmi una lezione, mandi pure a prendermi l’esercito, la polizia e i carabinieri, sempre che decidano ancora di seguirla. Li faccia schierare con le mitragliette per darmi una multa… Abito a Bergamo, al numero tre di via Santa Caterina. Ignoro se Lei abbia dei figli, ma penso che non le sia successa questa fortuna, a Lei, che lascia andare in giro la gente con i cani, ed è una cosa buona e giusta, se non fosse che chi ha dei ragazzi, proprio come me, deve portarli a duecento metri. Solo quelli. Il nostro futuro nell’inferno del cemento.
Signor Presidente, so che Lei e i membri del suo governo raramente scegliete di passare il vostro prezioso tempo a leggere qualcosa, lo faceste, non saremmo in questo casino. Guardi la foto e mi capisca, io tra le sue regole e il benessere dei miei ragazzi, sceglierò sempre Vinicio e Zeno.

Ps – Abbiamo aspettato tanto, tutti noi, buoni buoni agli arresti domiciliari. L’abbiamo fatto per darvi il tempo di organizzarvi. Proprio come in Cina, in Corea, a Taiwan o nella vicina Germania. Continuate a rimproverarci, ma noi il nostro l’abbiamo fatto. Voi invece non avete fatto quello che dovevate. E, Signor Presidente, il tempo è scaduto. E non ce l’ho con Lei, se infrango le regole è per la salute, la mia, di cui comunque mi frega assai poco, quella di Vinicio e di Zeno, che è la sola cosa che per me è importante.

Matteo Bonfanti