“Una cazzina di Vini è a casa mia… Zio, zio, una cazzina di Vini è a casa mia. Zio, zio, zio, una cazzina di Vini è a casa mia”, così Anita, mia nipote, già all’epoca eccezionale, una fantastica scimmietta che s’arrampicava sul pesco di Valgreghentino. Era una bimba bellissima, con dei lineamenti irresistibili, capace che si finiva tutti a stropicciarla sulle guance per ore tanto era meravigliosa a quattro anni, un fiore, poetica e divertente, uguale a come è adesso, quasi laureata, a ventuno, ma all’epoca mini, una piccolissima donna coi collant. Vini, il mio pupo, era un poppante, attaccato alle tette di sua madre come se non ci fosse un domani. Nella foga di succhiarla fino in fondo perdeva i calzini. Finivano in giro, spesso sul divano dell’appartamento di mia sorella, appunto da Ani, che ci teneva mi mettessi nell’idea di andare a recuperarli perché sentiva che lasciarli lì fosse uno spreco, insomma che dovevo fare al più presto qualcosa per evitare il peggio.
“Sono solo stasera senza di te, mi hai lasciato da solo davanti al cielo, e non so leggere, vienimi a prendere, mi riconosci, ho le tasche piene di sassi, la faccia piena di schiaffi, il cuore pieno di battiti. E gli occhi pieni di te”: c’è che io questo inarrivabile verso di Lorenzo pensavo si riferisse a lui fuori dalle scuole elementari, da piccolino, un popetto che aspettava il pullman numero quattro sognando di vedere apparire all’orizzonte, per caso o solo per fortuna, l’Austin Metro di sua mamma. Ora mi accorgo che sono i versi di un papà, che è stato pure uno zio innamorato, e che fino ad oggi ha avuto tanti di quei bambini addosso da sentire la vita perennemente a colori, con l’arcobaleno intorno. Questa sera i miei ragazzi stupendi sono tutti via, grandi, lontano lontano nel mondo, ed è il primo giorno di mille altri che sentirò al contrario, perché questa cosa che loro mi mancano e non hanno bisogno di me non è successa mai e mi ci devo abituare. Vini è a Malaga, ma va detto, a onor del vero, mi ha baciato sulla guancia un attimo prima di partire, Zeno è a Cattolica, ma va detto, a onor del vero, mi ha chiamato già un paio di volte, Miranda è alla Fura, Anita è a casa del suo fidanzato, Pietro compie venticinque anni ed è ormai un uomo fatto e finito, solo due chiacchiere nelle feste. Ed è stato un attimo, ma fico che più fico non si può, quando li portavo a Orioland tutti e cinque a fare casino ed erano appiccicati come l’attack, in braccio a turno, con il mio felice mal di schiena l’indomani.
E’ stato un secondo, è stato giusto aprire e chiudere gli occhi, un lunghissimissimo microscopico momento di irripetibile felicità. E adesso ho davanti una nuova vita, ma vorrei che quei cinque lì, gli unici che sento miei, miei come l’universo e il cuore, sapessero che adesso “sto giocando a dadi per vincere un avanzo di magia” perché “sono solo stasera senza di te, mi hai lasciato da solo davanti al cielo, e non so leggere, vienimi a prendere, mi riconosci, ho le tasche piene di sassi, la faccia piena di schiaffi, il cuore pieno di battiti. E gli occhi pieni di te”.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io e Zeno ieri, era il 2010