E così, amore mio, proprio come le uniche due donne che ho amato, anche tu ti sei innamorata di me. E dio se eri stronza vent’anni fa quando sono arrivato, elegante e sofisticata, anche un po’ ridicola mentre coi tacchi mi camminavi accanto in Città Alta, scatenata e chiassosa nelle nostre notti al Pacì Paciana, sempre affascinante, ma troppo misteriosa nelle sere di maggio a bere l’aperitivo sui tavolini dei bar del Sentierone, scappando ogni volta via, senza darmi neppure il tempo di darti un bacio.
Adesso piangi, bimba mia, e mi chiedi di tenerti in braccio e di farti ridere, e io lo faccio, che per me, che ti ho amato tanto e così a lungo, vederti sorridere è sempre stata l’unica cosa. E ti accarezzo i seni e le gambe lunghe e muscolose, intraviste quando l’Atalanta era ancora piccina e il suo stadio si chiamava Comunale. E io ti guardavo e tu manco ti degnavi di rispondere alle mie domande, quelle di un misero giornalista arrivato da un’altra provincia. Ti davi solo ai tuoi, a Pietro, a Stefano, a Ildo e a Giacomo, e, a pensarci adesso, forse era pure giusto così.
Adorato tesoro, sei così strana, che mi apri il cuore ora che chi ti comanda ti vorrebbe chiusa a riccio. Mi fai vedere le tue case, mi fai chiacchierare con la tua bellissima gente, oggi Raimondo e Marcella, a Sant’Agostino, il meraviglioso ombelico del tuo splendido corpo, poi più giù, nella musica che gira intorno, sui balconi di via San Tomaso.
E adesso sei la dolcezza delle luci del mattino, quando arrivo in redazione, in Piazzale San Paolo, a pochi passi da una delle tue anime migliori, la mia Giuliana, che sta a fare i casoncelli e la polenta in via Broseta, buonissimi e per pochi euro.
Ma se mi sono perso per te è perché sei stata soldi, sesso e sangue, le famose tre esse che mi nascondevi tra le colonne immacolate di viale Papa Giovanni, ma che io incontravo tra le pieghe delle mie inchieste, tra mille articoli e persino una macchina bruciata, sotto qua, in Borgo Santa Caterina, una strada che d’estate somiglia ai tuoi capelli biondi e riccissimi.
Spesso ho pensato di lasciarti, che ero stanco di non capirti e poi ho sempre pensato fossi troppo, troppo bella, troppo complessa, troppo oscura, per me che sono semplice e che prima di te avevo avuto solo le barche ferme in mezzo al mio piccolo e rassicurante lago. E invece sono restato e mi hai aiutato tanto, con me in mille cose, un giornale sul pallone, che col ciclismo è la tua grande passione, due dischi, migliaia di cazzate con cento e passa amici.
Mi hai dato da mangiare, il cinema all’aperto, il teatro, i concerti al Lazzaretto, i colori della Maresana, persino due bambini, i miei, Vinicio e Zeno, ormai ragazzi, stupendi e incomprensibili, proprio come te.
Va beh, avrei tante cose da dirti, ma non è questo il tempo perché tutti e due non siamo proprio noi, dico quelli di sempre. Sarà quel che sarà, se sarà vero. Ma come nella famosa canzone questa notte ti leggo nel pensiero. E mi vien da dirti ti amo, Bergamo, piccola, immensa e adorata città mia, deserta e colpita al cuore. Ti prometto che ti difenderò, ma tu tenta di non metterti più in casini così grossi.

Matteo Bonfanti