Liberamente tratto da una storia vera.

Flavio era un camionista e lavorava in una cava di sabbia: la sua mansione era il trasporto di inerti.

Tutti i giorni sveglia al solito orario, colazione, trasferimento in ditta dov’era il Mercedes Actros 430 già carico dalla sera prima, webasto acceso e cabina calda, bolla di accompagnamento appoggiata sul sedile con destinazione per una delle varie aziende della Lombardia.

Flavio non aveva nulla della rozzezza riconducibile all’icona di camionista: lui era gentile, aggraziato nei modi, un tipo gracilino, abbastanza alto ma un po’ ricurvo, forse per non sembrarlo troppo. Raramente lo si vedeva ridere di gusto o partecipare alla goliardia dei colleghi che facevano battute grette sul genere femminile, apprezzamenti imbarazzanti, allusioni sul “culo di quella impiegata” o “sulle tette di quell’altra”. Flavio scansava queste bassezze, risaltando come un fenicottero rosa tra i leoni della savana. Non a caso il sospetto che fosse un “frocio” fu avanzato da alcuni dei suoi colleghi ma, alle parole maleducate di costoro, si contrapponevano altri che abitavano nel suo stesso paese e lo conoscevano da una vita adducendo fosse sposato con una femmina affascinante, una donna bellissima e ambita con la quale oltretutto aveva messo al mondo una bambina meravigliosa. A dire il vero anche a questi ultimi Flavio aveva dato l’impressione di essere gay perché fin da bambino era chiaramente “diverso” da loro, ma le foto che ritraevano la famigliola felice erano eloquenti. A questo punto, di fronte all’evidenza, i commenti beffeggiatori passarono da Flavio a Giuliana, la sua bellissima moglie che aveva scelto un effeminato, un invertito, un mezz’uomo al posto di un vero macho come qualcuno sosteneva d’essere.

“Io sì che saprei farla galoppare una cavalla come questa” disse uno tizio toccandosi le parti basse fra le grasse risate dei presenti.

I giorni si susseguirono accumulandosi, formando mesi, anni mentre Flavio era sempre lo stesso: un padre perfetto, un marito fedele, sempre ligio al suo dovere, sempre ricurvo, sempre fenicottero, sempre deriso da alcuni colleghi e compatito da altri. Il suo viso, la sua espressione erano indecifrabili proprio come per il volto della Monna Lisa di Leonardo da Vinci: poteva essere il risultato di una moderata felicità o la prigione dei suoi sentimenti.

Intanto il commercio diveniva sempre più florido: l’azienda per cui lavorava era subissata dalle richieste dato che il materiale consegnato disponeva di un elevato rapporto qualità/prezzo. Un giorno d’inverno Flavio arrivò a trasportare la merce fino ai margini della propria regione. Arrivato dal cliente, tutto avrebbe dovuto svolgersi come di consueto: spegnere il camion sulla pesa, entrare in ufficio per consegnare il DDT (Documento Di Trasporto) mentre l’addetto registrava il peso del mezzo, dopodiché risalire in cabina per andare a scaricare la sabbia dove indicatogli, ritornare in pesa, nuova registrazione, sottrazione della tara dal lordo ottenendo il peso netto, confronto con quanto stampato sulla bolla di accompagnamento, firma e tanti saluti. Tutto questo nella totale apatia, con quel sorriso “non sorriso” che accompagnava tutti i suoi giorni lavorativi. Qualcosa però stravolse la consuetudine e quel qualcosa si chiamava Maurizio, l’addetto alla registrazione del peso e vidimazione del documento di trasporto. In un primo momento a Flavio non fu ben chiaro cosa stesse accadendo nella sua mente, fatto sta che l’apatia con cui svolgeva la sua mansione di consegna e ritorno alla base subì uno scossone nel momento esatto che vide quell’impiegato sorridergli dal bancone. Maurizio era un uomo attraente, dal fisico aitante, energetico come l’espressione del suo viso, l’esatto opposto del fenicottero rosa. I suoi occhi neri sembravano ardere tanto che Flavio avvertì quel calore sentendosi accaldato, costretto a togliere l’inseparabile giaccone, più grande di due misure, che serviva a nascondere il suo fisico emaciato ma nello stesso tempo lo rendeva buffo.

“Arrivederci a presto” disse Maurizio facendogli un sorrisino malizioso mentre gli consegnava il DDT firmato e timbrato.

Flavio non era mai stato un fulmine nelle consegne. Quel viaggio di ritorno però richiese molto più tempo del solito perché dovette fermarsi più di una volta a riflettere sullo sconvolgimento che sentiva in animo: perché quell’uomo l’aveva turbato a tal punto? Lui era sempre stato un perfetto marito, non aveva mai guardato un’altra donna. Il genere femminile non esisteva se non nella figura della moglie. E allora perché stavolta sentiva attrazione verso un’altra persona? Oltretutto verso qualcuno del proprio sesso, verso quell’impiegato che aveva visto per la prima volta. Forse perché quel Maurizio gli aveva sorriso? No no, non poteva essere. Era successo altre volte ma lui aveva sempre risposto a chiunque con l’apatia del “non sorriso”.

Per tutta la strada di ritorno fu tormentato da una miriade di domande e una volta in azienda chiese al responsabile il permesso di andarsene a casa perché non si sentiva bene. La sera a cena fu addirittura più taciturno del solito, mangiando la minestrina con una flemma mortale senza mai alzare gli occhi dal piatto. Ebbe un sussulto solamente quando la moglie gli chiese se fosse successo qualcosa sul lavoro. Flavio si affrettò a negare, poi alzandosi da tavola per sedersi sulla poltrona dove fu subito raggiunto dalla sua splendida bambina che s’accovacciò in braccio al papà per farsi amorevolmente accarezzare. Circa un’ora dopo, a furia di coccole, la creatura si addormentò e così Giuliana la prese dalle braccia del padre portandola nella sua stanzetta. Al suo ritorno Flavio non era più in sala ma lo trovò già a letto con la luce spenta. La donna richiuse piano la porta ritornando in cucina a finire di stirare, poi stendendosi sul divano per rilassarsi. In camera, intanto, il marito non riusciva a prendere sonno: nella sua mente si alternavano il sorridente volto di Maurizio e quello di suo padre Bruno, ricordandolo in quel lontano giorno quando gli poggiò la mano sulla spalla ed in tono austero gli disse “ti prego, tutto ma non diventarmi frocio”.

Perché gliel’aveva detto? Da cosa era scaturita una frase del genere? Possibile che avesse rimosso il ricordo? Flavio si sforzò ma non gli venne in mente niente. Forse perché aveva sotterrato i suoi sentimenti sotto una montagna di altrui aspettative?

Lui era diventato un camionista proprio come gli aveva consigliato papà, lavorava nella stessa azienda dove lui aveva prestato servizio per più di trent’anni, aveva sposato una bella donna mettendo su famiglia proprio come il padre aveva sempre sognato. Tutto perfetto. Tutto secondo copione. Possibile che questo castello stesse vacillando per il sorriso di un uomo? No, no assolutamente no, e poi non poteva deludere chi credeva in lui. Flavio amava suo padre, amava la sua famiglia, amava sua moglie, ancor più amava la sua piccola principessina: per loro, per tutti loro, non avrebbe esitato a gettarsi nel fuoco.

Venne l’indomani, il dopodomani, il dopo dopodomani e la consuetudine, la prassi, la routine lo aiutarono a smorzare il turbamento fino al giorno però che dovette tornare in quell’azienda ai confini della Lombardia. Flavio, quando ritirò il DDT per la mattina, ebbe un colpo al cuore restando a fissare il documento come se avesse in mano l’esito degli esami clinici che gli diagnosticavano un cancro. La notte, infatti, dormì poco o niente, non fece colazione e, per la prima volta nella sua vita, arrivò tardi al lavoro. Avrebbe voluto scappare, scomparire, annullarsi così come aveva saputo fare per tutta la sua misera vita ma non gli riuscì di elaborare nemmeno la più futile delle scuse per sfuggire al suo destino; sentiva la trattenuta del terrore, la possibilità di distruggere il castello d’illusioni, ma pure una strana forza, forse della sua vera natura, una spinta a quegli occhi neri che da dietro al bancone gli avevano sorriso come nessuno prima d’ora. Il viaggio di andata si svolse come al solito: Flavio, un automa, un essere impassibile alla guida di un autoarticolato con quattrocento quintali di sabbia vagliata che procedeva alla velocità massima di 40 km/h. Giunse finalmente in quell’azienda, spense il mezzo, deglutì a fatica, scese, chiuse la porta, camminò con l’usuale flemma da morto vivente verso l‘ufficio, appoggiò la mano sulla maniglione antipanico, deglutì nuovamente come se avesse inghiottito un sasso ed aprì la porta andando al bancone. Maurizio era lì, bello come il sole, luminoso, raggiante, che sorridente allungò la mano per ricevere il documento di trasporto. Flavio però esitava a consegnarglielo come se in quel semplice gesto fosse racchiusa tutta la sua vita. Guardò in basso accorgendosi che le mani stessero tremando. In effetti tremava tutto il suo corpo perché al suo interno si stava consumando una lotta fratricida, una guerra civile, una pulizia etnica, uno scempio con milioni e milioni di morti. Maurizio era attonito, non capiva cosa stesse accadendo ma forse, a ben guardare, lo sapeva benissimo e allora si guardò intorno, un occhio ai colleghi notando però un totale disinteresse. Ad un tratto un profondo sospiro attirò la sua attenzione riportando lo sguardo al camionista, a quell’uomo, notando come d’incanto sembrasse più alto. La cruenta battaglia nell’animo di Flavio era finita e porgendogli il foglio fece la cosa che da millenni non aveva più fatto: sorridere, un sorriso lucente che riportò la vita sul suo volto. Il fenicottero rosa finalmente aveva spiegato le sue ali senza più pensare al castello costruito sulle altrui aspettative.

Marcus Joseph Bax