M10, S3 e poi tre fermate di bus, il 62.
Bisogna prendere tre mezzi per arrivare all’An der Alten Försterei, lo stadio che per sette anni mi è sembrato una chimera: impossibile entrarci in campionato, dato che gli abbonati superano in gran copia il numero dei posti disponibili per gli spettatori e la squadra organizza una lotteria un fine settimana sì e uno no per permettere a tutti di vedere l’Eisern Union.
Mica male, soprattutto se pensiamo ad alcuni stadi nostrani, mezzi vuoti a causa di una sconsiderata gestione dei prezzi dei biglietti. “Siamo fatti così, siamo proprio fatti così”, ma non esploriamo il corpo umano: è andata in onda una puntata della deriva italiana moderna, pretenziosa e raffazzonata, micragnosa e – parrebbe – poco incline a tener conto dell’importanza dei tifosi durante una partita.
Appena giunti allo stadio cerco birra e panino: la ricerca dura pochissimo, mastico e taccio, guardandomi intorno.
La sensazione è la stessa di quando sono stata a Wolfsburg nel marzo 2015 (Wolfsburg-Inter, 3-1): lo stadio è di tutti, per tutti, con tutti, altrimenti stadio non è. Altrimenti è una cena aziendale.
Molti dei tifosi che vedo hanno probabilmente il loro nome scritto sul monumento all’ingresso, quello ai tifosi che hanno permesso, col loro lavoro volontario, l’ampliamento della struttura: l’Union è più che una squadra, forse già tutti lo sapete, ma ribadirlo non guasta.
Il fatto che i tifosi bergamaschi entrino nello stadio dell’Union mi fa subito pensare alla bellezza di alcune professionalità, quelle più concrete: mi piace immaginare che abbiano toccato il cemento, e poi scrutato le travi guardando all’insù, e poi pestato per bene i piedi, concludendo con “sì, un bel lavoro, son stati bravi”: abbiamo l’eccellenza delle costruzioni, del resto, lo sanno tutti. Se lo stadio passa l’esame di un consesso di bergamaschi…
Mentre mangio, comunque, i tifosi della Dea hanno già preso posto nel loro settore, dietro alla rete con la scritta “Eisern Union”.
Il colpo d’occhio, dentro, è incredibile, ma il colpo d’orecchio di più: se pensate che si tratta di un’amichevole di inizio agosto, c’è da rimanere di stucco (calce?) dal caldissimo entusiasmo con cui i tifosi cantano a squarciagola ogni coro. Mi rammarico di non conoscerne, ma ci metto pochissimo ad accodarmi, così da entrare a far parte della festa al meglio delle mie possibilità.
I primi venti minuti di partita li intuisco e nient’altro: a parte la tribuna distinti, infatti, all’Alte Försterei tutti i posti sono in piedi e io mi sono attardata con birra e panino (una clamorosa dilettante!). Penso addirittura di connettermi a Dazn per guardare una partita che si gioca a 10 metri da me.
Canto, ballo, guardo Carnesecchi (ha salvato la porta molto bene in un paio di occasioni) perché lo spilungone davanti a me non mi permette di vedere molto altro e seguo i festeggiamenti berlinesi (köpenickiani, meglio: si chiama Union Berlin, ma è la squadra di Köpenick, è un fatto importantissimo, meglio tenerlo a mente) per i tre gol che arrivano nei primi 25 minuti.
Vedo anche Gasperini, in effetti: passeggia avanti e indré davanti alla panchina e sembra perso nelle sue riflessioni, forse su come aggiustare al meglio una difesa che, almeno ad agosto, non sembra essere molto rodata.
Lo spilungone si gira, mi guarda, fa un cenno e se ne va: gioia! Gaudio! Sto guardando la partita da una postazione perfetta! Sono vicinissima, Zappacosta potrebbe lanciarmi in rete senza esitazioni (ma non lo farà), mi sbrodolo di birra e ripeto quel che capisco dei cori berlinesi.
A questo proposito, vorrei dire due cose: la prima è che, dopo ogni nome di giocatore in rosso lanciato dallo speaker, i tifosi urlano “Fussbalgott”, Dio del calcio: ve lo immaginate da noi?
La seconda è che le seconde voci sui cori mi fanno impazzire (FC Union clap clap clap Unsere Liebe LIEBE LIEBE LIEBE), dobbiamo assolutamente importare questa faccenda: capiultrà italiani, chiamatemi che ne parliamo.
Da un certo punto della partita in poi, comunque, a ogni calcio d’angolo per la squadra di casa il pubblico estraeva dalle tasche il suo bel mazzo di chiavi e lo agitava nell’aria: il suono è come un canto di stelline – non saprei dirlo meglio di così – che scendono a sperare che si riesca ad aprire la porta: l’umorismo tedesco è spassoso, se qualcuno dice di no non credetegli. Sentire questo suono allo stadio è strano e affascinante (lo facciamo anche noi? Dai, cosa ci costa…).
Altra nota piccolissima: laggiù hanno un tabellone del risultato che aggiornano a mano. Sbuca un omino dalla finestrella, toglie il numero vecchio e inserisce quello nuovo. Lo ha fatto cinque volte, come saprete, nel corso della partita.
Insomma, chiavi come stelline, Dei del calcio berlinesi, Dea da ricalibrare, birre, cori a due voci, stadio pieno zeppo di valori, giocatori a dieci metri, mal di schiena: un sabato perfetto, al netto del risultato.
Ho amiche e amici a cui del calcio non importa niente che avrebbero passato un pomeriggio splendido, riuscendo ad appassionarsi a un’amichevole estiva: ne sono più che sicura. Questo è il calcio, secondo me: un’associazione, un Verein, come si dice qui, di cose belle, una catapulta verso il suono delle stelle; se poi sono solo chiavi, non fa niente. Ce le faremo bastare per aprire tutte le porte.
Elettra Dotti