Non mi lamento, che sono in salute, sia io che i miei, e qui da noi, a Bergamo, non siamo così in tanti ad avere questa fortuna. Ci sono un sacco di miei amici che stanno male, alcuni proprio per la malattia, altri perché colpiti negli affetti più cari, chi ha perso il babbo, chi la mamma, chi tutti e due nel giro di pochi giorni, chi lo zio, il cognato o il suocero, spesso lutti che accadono uno di fila all’altro, a volte senza neppure sapere dove siano finite le ceneri.
In una situazione così non posso minimamente menarla. Eppure sento che questo virus infame sia davvero stronzo, soprattutto perché nella mia provincia non si ferma mai, continuando a farci scrivere di persone bellissime, che se ne sono appena andate. Ma l’odio è anche per cosa ci obbliga, a tutti noi, qualcosa che a tratti personalmente sento disumano. Io che soffro maggiormente è l’assenza del pallone, che gioco da quando avevo quattro anni, sempre in modo pessimo, ma in quell’immenso godimento che mi dà un dribbling perfettamente riuscito, un gol appena sotto l’incrocio e un paio di legnate ben assestate a chi mi marca e che mi fa sentire il suo piede addosso appena gli vado via sulla fascia, tre cose che mi fanno sentire un dio.
Mi manca così tanto il pallone, che l’altro giorno, che era giovedì, il 26 marzo, ho guardato l’orario ed erano più o meno le otto e mi sono messo a fare la borsa. Non avevo la divisa gialla, l’ho persa non so dove e i miei amici ancora me la menano, che se ne fottono e mi mettono tutte le volte contro i blu, così, per prendermi per il culo e vedermi nello spogliatoio a elemosinarla in giro, sperando nel Bruno, meravigliosa ala sinistra, uno che non fa una beata mazza per novanta minuti, poi te la risolve con tre reti che manco Cristiano Ronaldo quando era al Real, commercialista, ex fenomeno del football, l’unica anima pia che mi presta la sua maglietta color paglierino. Mi dice: “Ma Matte, ti prego, non snarisciarci sopra, altrimenti mi incazzo…”.
Era giovedì 26, l’ho già detto, un mese di isolamento, interamente senza calcio, ero a casa, i miei figli, Vinicio e Zeno stavano a spaccarsi su Fortnite, giustamente, poveri ragazzi, che non hanno più gli amici da vedere (e quando finirà a Stephan darò un abbraccio di sette ore…), la passerina da sognare stando mano nella mano con la compagna di banco al ritorno da scuola, non hanno né il parco Suardi né i brividini delle interrogazioni quasi sicure il giorno dopo, “che babbo stasera non vedo il film con voi, studio, ormai manchiamo in quattro e domani quella stronza mi becca di sicuro”. Ho visto i miei figli, li ho osservati disperati, e ho deciso che non fosse il caso di tormentarli con l’ennesima partita a Uno, lasciandoli al loro beautiful game.
Così ho chiuso gli occhi pensando al mio, il gioco più bello del mondo, coi bergamaschi più fighi di questo universo. Ed è iniziata la partita, col solito golasso di Flavio, il più forte centravanti con cui ho mai giocato, uno che ti nasconde la palla perché ha una classe della Madonna, che è sempre sul punto di perderla, perché gli stiamo in quattro addosso, ma lui ne esce tutte le volte palla al piede, indenne dal famoso fazzoletto, e spara la bordata e la mette sotto il sette. Facendoti godere, va detto immensamente, se sei in squadra con lui, mettendoti nella depressione calcistica più nera se ce l’hai contro.
Al sesto minuto immaginario mi è capitato il pallone sulla trequarti, ma Ferdi non mi faceva passare, è un osso, il tipico centrale, scorretto, stronzetto, il cagnaccio che ti si appoggia, ti spinge, rendendoti innocuo, in quell’angolo di solitudine che è la fascia sinistra per chi come me è un destro con solo quel piede.
Poi ho sognato ancora, un’ora e mezza, il tempo nostro quando scendiamo in campo nel nostro stadio, il catino di Orio. E sono stato accanto al Cinga, visione di gioco stratosferica, passo lento e migliaia di consigli (è un mister, cazzo-figa…), al Genio, di nome e di fatto perché fa certi gol al volo impossibili, impossibili pure da immaginare, a Enzo, che ha un piede delizioso e lo sa e a volte fa la fighetta perché è tanta tanta roba, al Franci, centravanti fortissimissimo, classe e velocità, nonostante abbia un ginocchio andato per via delle sue stagioni a Palazzolo, al Gigi, meraviglioso grande assente per i suoi guai muscolari (ma il primo a mettersi a tavola per farci ridere, un grande, un uomo vero), al Debla, centralone roccioso, tecnica da trequartista, il nostro Baresi, a Raul, che a me ricorda il Paolo Maldini esplosivo di quando andavo col mio papi a San Siro a vedere il Milan, al Gippo, supersonica valanga calcistica, del resto è un maestro di sci (pregando il Signore di averlo sempre insieme, mai contro), a Rude, splendido difensore-psicologo, ad Angelo, fenomenale mastino, che ho sempre pensato che politicamente sia di sinistra come me (gli unici due, siamo nella Bergamasca…), a Pirmin, fiorista e goleador, uno che quando è in giornata fa la differenza, al Riki, fantasista anarchico che ha numeri da campione, ma pochissima voglia di sudare, a Tapabus, che per me è forte forte, ma se gli rompiamo i coglioni, smette di giocare per protesta, a Sergio, uno che ha dentro la voglia di spaccare il mondo, immarcabile e rissoso. A tutti gli altri, quelli di cui mi sono dimenticato, splendidi interpreti delle mie serate, i martedì e i giovedì che mi stramancano. Mi manca addirittura lei, la famosa Carla, una donna molto carina, ma che è il nostro terrore, perché viene a spegnerci le luci quando esageriamo e siamo al dodicesimo golden gol (“oh, chi segna ha vinto”).
Questo pezzo è per Flavio e per Ferdi, due campioni, che hanno preso questa sfiga, ma che la vinceranno, lo faranno anche un po’ per me, che ho bisogno di giocarci insieme o contro, per tornare a casa felice o incazzato, insomma vivo. Li bacio, sapendo che nel gruppo di Whatsapp per questo mi daranno tutti del ricchione. Ma tanto me ne fotto, lo leggo solo per le convocazioni del Genio, che fa le squadre per vincere. Spero presto. E mi raccomando nei Blu…

Matteo Bonfanti