di Matteo Bonfanti
Travolto dall’Irpef non versata nel lontano 2009, sono finito per la prima volta in vita mia a fare una vacanza in un villaggio turistico. Spiego meglio la concatenazione dei drammatici eventi che mi hanno portato appena pochi giorni fa a trascorrere un’intera settimana al Nuovo Natural Village di Porto Potenza Picena, nelle Marche. Un giorno di metà luglio mi arriva una cartolina dagli amici di Equitalia. Pieno zeppo di speranza mi reco all’ufficio postale di Redona, convinto che vogliano, finalmente, congratularsi con me per aver pagato ogni tassa possibile e immaginabile da quando lavoro, diciotto anni in cui ho versato allo Stato più o meno la metà di quanto ho preso dai miei vari principali, in ultimo la Cooperativa Bergamo & Sport. Vado baldanzoso, senza scheletri nell’armadio, certo che sia una missiva solo per dirmi bravo, continua così, invitandomi, insomma, a non mollare e a restare nel quarto del nostro popolo che fa una fatica boia, ma ancora non evade. Sono sicuro dell’applauso e spero anche in due parole dell’impiegata: “E’ anche grazie a gente come lei che io prendo lo stipendio e faccio una vita dignitosa. E’ merito suo, signor Bonfanti, se i miei figli studiano all’università. Noi l’amiamo. E io, se lo desidera, eventualmente posso baciarla con la lingua stritolandole, nel contempo, le orecchie che so che ultimamente sono una delle sue principali zone erogene. Non si faccia scrupoli, per me sarebbe un immenso piacere”. E i suoi colleghi si alzano in piedi e, travestiti da capo a piedi da Freddie Mercury, ognuno coi baffi, iniziano a cantarmi in perfetto falsetto “We are the champions” dei Queen.
Invece mi guarda schifata perché nota che ho la faccia incremata dalla mia solita scottatura estiva e mi fa: “C’è una cartella per lei”. E me la dà. Prima pagina priva di senso, la seconda ha un sacco di cifre, la terza pure, alla quarta leggo il conto: 2374 euro che devo all’Italia e che, inviando a fine mese un’incredibile serie di carte, posso  pagare in quattro comode rate. Due di queste fanno quasi esattamente quanto ho sul conto corrente: 1251 euro, i soldi destinati alle mie vacanze. Che faccio? Penso immediatamente al gratta e vinci. Ma mi dico che non è il caso perché l’unica volta che ho vinto qualcosa è stato alla  festa dell’oratorio, nel 1984. Avevo sette anni, la sorte si divertì facendomi fare tombola: uno sconsolato frate cappuccino, tale Padre Giulio, mi consegnò un Pulisci Insalata Girevole immediatamente regalato a un’insistente vecchina cattivissima, la signora Cavalli, che ci tirava secchi d’acqua quando ci mettevamo a giocare a pallone sotto casa sua. Associazione dopo associazione mi viene in mente “Chi vuol essere milionario” e opto per la salvifica telefonata al parente stretto. Chiamo mia mamma, gonfiando oltremodo il mio debito con l’erario, le dico quattromila euro circa, fingendo un pianto, poi un singhiozzo, quindi descrivendole i miei bambini, Vinicio e Zeno, in una Bergamo ferragostana afosa, prosciugata delle risorse idriche, soffocata dallo scirocco proveniente dal Sahara, fatto soffiare apposta da un Dio cattivo e noioso che vuole uccidere di caldo ogni abitante orobico sotto i dieci anni d’età, non perché noi residenti ci siamo comportati male e ce lo meritiamo, ma per divertirsi, un po’ come fa Zeus in una puntata cult di Pollon.
Mia madre, che è tenerissima e assai generosa, non ci pensa due volte e chiama suo marito, Ernesto, un altro che più buono non si può. Veloce conciliabolo tra loro e il verdetto sognato da me: “Quest’anno le vacanze ve le paghiamo noi”. E’ fatta, mi dico. E mi immagino già in Corsica, sulla spiaggia del deserto di Des Agriates che non ha abitanti, non ha il telefono né la rete del cellulare, ma ha un paio di amache per chi ci arriva ed è perfetta per me che nella vita sono perennemente in mezzo agli altri e quando stacco faccio il sordo, il muto e quello in carrozzella per evitare di parlare ai miei simili. Leggo i gialli di Carlotto, bevo birrette, fumo un sacco di sigarette, evito il bagno salato, la doccia, mi perdo in pensieri assurdi sul suicidio di Kurt Cobain e sulla fine di Jim Morrison. Insomma, a mente sgombra, mi piace puzzare ragionando su cose carine, musicisti coi contro coglioni che si sono autodistrutti in libertà all’apice del successo.
Passo un giorno a immaginarmi nel più totale scazzo, ma vengo gelato per la seconda volta in tre giorni: “Vi abbiamo già fatto il versamento per una settimana al Natural Village. Vedrete, vi piacerà da matti”.  Sticazzi. E già mi sento in colpa, sentimento che mi accompagnerà per l’intero soggiorno a Porta Potenza Picena. Perché lì ci sono un sacco di animatori, giovani, belli, simpatici ed entusiasti che mi vedono nella mia versione uomo orso e quindi si dannano l’anima per coinvolgermi in qualsiasi attività. Ce n’è per tutti i gusti: tennis, calcio a cinque, ping pong, nuoto, acqua gim. Passano e mi chiamano per nome: “Matteo caro, ricordati che a mezzogiorno c’è il quizzone in piscina” e poi “alle sei c’è l’aperitivo danzante” e “non dimenticare di portare Vinicio e Zeno questa sera alla Baby Dance che c’è Papero che gli piace tanto”. Io li ascolto, gli sorrido e, a quel punto, mi viene addosso la solita fitta, quella che avevo da bambino quando ancora eravamo poveri: mia mamma che metteva via i soldi per comperare le scarpe e mi portava all’Eletta, il negozio del centro di Lecco, la città dove sono nato e cresciuto. E a me delle calzature non me ne poteva fregare di meno, ma un paio lo prendevo lo stesso, per far felice lei e mi fingevo contento, ma in realtà mi accorgevo che con le Nike ai piedi mi pareva di morire dentro. Quel che è stato il Natural Village e c’è la foto che lo dimostra, io che sorrido abbracciato a un’anziana signora mentre faccio dei balli di gruppo consigliati per buttare giù la mia pancetta che amo e che mantengo bevendo tre Ceres a sera.
Sono contro il benessere, soffro il divertimento, spero di alzarmi ogni mattina con un leggero mal di testa. E allora l’ho fatto, ho messo giù il mio progetto, l’Artificial Village, una colata di cemento nella periferia di Pavia recintata con filo spinato, dove non si può parlare con gli altri villeggianti ed è proibita qualsiasi attività fisica e una benché minima pozza d’acqua. Si sta lì, in silenzio, a leggere libri e giornali e a fumare mozzi. A colazione, pranzo e cena solo paninozzi con il doppio hamburgerone zeppi di ketchup e maionese. Proibite le verdure. Pene corporee per chi è beccato a mangiare l’insalata. Chi vuole prenotare un posto per l’estate 2015, mi scriva in privato. Non voglio che mia mamma e suo marito sappiano quel che mi frulla in testa. Mi sentirei in colpa.