di Simone Fornoni

Bologna è una regola, cantava Luca Carboni. Quella dei cinque cambi, che ha rivoluzionato e fatto un po’ rifiatare il calcio nel calendario compresso dal fottutissimo Covid-19, anche. L’Atalanta si morde le mani dal dispetto, perché sotto l’albero, oltre al divorzio doloroso col Papu Gomez, non avrebbe certo voluto infiocchettare anche la doppia sostituzione della sua luce, Josip Ilicic, e del suo doppio bomber in un giro di lancetta, Luis Muriel. I fatti raccontano che finché è rimasto a pelo d’erba almeno il secondo il punteggio avrebbe potuto reggersi eccome. Mettiamoci il punto: dell’analisi tecnica s’è occupato il nostro Giacomo Mayer, a ciascuno il suo. Premessa necessaria. Farsi acciuffare sul 2-2 avanti di due gol, dopo aver dominato l’intero primo tempo, al cospetto di una squadra tecnicamente inferiore non è una tragedia. Con le parole non si scherza. Il 2020 che va a morire ci ha aperto gli occhi sulle priorità della nostra esistenza, continuamente minacciata da nemici invisibili quanto implacabili. Ma alla resa dei conti, stavolta, Gian Piero Gasperini, dominus incontrastato della situazione dopo che uno dei due galli è stato allontanato dal pollaio – è una metafora, una figura retorica, non un’offesa né una provocazione: avvertenza per chi prende tutto alla lettera e poi viene a presentare le rimostranze a chi scrive -, non ha proprio indovinato quelle due sostituzioni, togliendo dalla mischia i risolutori della prima metà. 

Sottolinearlo non è un delitto, né sminuisce il genio e i meriti dell’interessato, impressi a caratteri maiuscoli e indelebili nella storia del club. Lo sloveno e il colombiano, bomber di scorta che da panchinaro pronto a calarsi l’elmetto comunque ne ha messi soltanto due (Amsterdam e alla Roma) su nove (anche Torino, Cagliari, Midtjylland, Crotone-bis) in stagione, sono stati la mente e il braccio armato di una squadra dagli equilibri perfetti. Spezzati dai due interventi della panchina, perché Aleksey Miranchuk e Duvan Zapata sono entrati in partita per onor di firma. Il primo, abituato a un minutaggio risicatissimo e appena uscito dal tunnel sanitario, non poteva certo tenere l’interruttore acceso come l’illustre sostituito. Il secondo era visibilmente stanco, stremato dal lavoro sull’intero fronte cui l’aveva costretto nelle scorse settimane la revisione tattica all’insegna della maggior copertura e densità a centrocampo che lo vedeva spesso e volentieri come unica punta in campo. Ha sbagliato il Gasp: non lo si scrive per partito preso, lo si scrive perché è lui il primo a ripetere sempre che nel pallone, troppo rotondo per non tradire al primo erroricchio, conta il risultato.  Scriverlo non è un delitto di lesa maestà, fatto salvo il diritto di critica, costituzionalmente e deontologicamente accertabili attraverso la lettura dei testi sacri, in primis la Costituzione della Repubblica Italiana. E due mosse sbagliate restano due mosse sbagliate. Anche se non irrimediabili: ottavi di Champions col Real Madrid a parte, c’è davanti tutto un campionato, c’è tempo a profusione per cominciare a fare sul serio prendendo l’abituale rincorsa. Se è in discesa, a noi bergamaschi non piace, siamo masochisti e ci piace sudarcela fino all’ultima stilla.

Nessuno, al dunque, ha però il diritto di sentirsi scornato, frustrato, arrabbiato e deluso per un punto che potevano esserne tre. Dopo tutto si tratta di un gioco, anche se dal professionismo televisivizzato e portato alle estreme conseguenze, compresa un’inevitabile perdita di contatto con la realtà quotidiana, star e starlette su una nuvola antennuta e il popolo a benedire plaudente prostrandosi davanti, anzi sotto, a livello asfalto. A Bergamo non è successo. Bergamo è fortunata. A Bergamo i giocatori non la fanno da divi, li trovi per strada o al ristorante, quando il firmalibretti di Palazzo Chigi non li chiude o non ci chiude tutti in casa. Bergamo ha l’Atalanta, ha Antonio e Luca Percassi, ha Gian Piero Gasperini, ha la truppa agli ordini del generalissimo. Gente che ne sa, anche se è tanto umile da non ammorbare noialtri spiegandocela. Gente che qualunque cosa si lasci uscire di bocca ci dice soltanto: “Sedetevi lì e godetevi lo spettacolo, al resto pensiamo noi”. Gente convinta che undici nerazzurri pronti a rincorrere il pallone e a spingerlo oltre la meta valga la catarsi collettiva, la purificazione dai mali e dalle passioni negative, e soprattutto la terapia per scacciare le paure, l’ansia di vivere in mezzo ai problemi e ai pericoli. Perché sognare non costa nulla, in attesa che torni a costare il prezzo del biglietto a stadi finalmente aperti di nuovo al pubblico. E perché l’Atalanta e il Gasp sono gli architetti dei sogni, anche quando sbagliano e ciccano due cambi o un tempo intero. Un grazie grande quanto il mondo, dal Presidente all’ultimo dei magazzinieri, alla cosa più bella che potesse capitarci. Anche al firmatario del presente articolo, peraltro juventino quindi ancor più scornato dall’ultima giornata dell’anno, uno a rischio di rimanere a spasso, cacciato da casa sua, senza legami né stabilità, senza speranze né illusioni, senza luce e senza orizzonti, tranne uno: quella squadra che posa i tacchetti in campo e lo porta in un’altra dimensione. Buon Natale.