di Simone Fornoni

“Ma tu stai con Gomez o con Gasperini?”. Un tormentone. Su Facebook, al telefono, sul messenger, ovunque. I tifosi sono una razza stranissima. Ne faccio parte anch’io, come tutti gli appassionati di calcio o, nel mio caso, gli addetti ai lavori. Chi scrive di pallone tifa, anche se talvolta non per la squadra per cui gli pagano gli articoli. E benché sia opinione comune che siano i giornalisti a innalzare sugli scudi o ad abbassare sottoterra la reputazione dei giocatori, magari a suon di votacci in pagella, nessuno come chi trepida per la propria squadra ha il potere di farlo. Prova ne sia il potere della rete nel decretare, di fatto, la fine della leadership del Papu nell’Atalanta. Anzi, la sua decadenza da simbolo di Bergamo stessa, dei sogni e delle ambizioni di una città che di solito se le fa limitare dalle sponde del Morla, dedita com’è a curvare la schiena per lavorare e basta. Prima le verità sottaciute e rinviate a quando se ne sarà andato, adesso pure l’inno della Juve canticchiato.

Non si cancellano gli idoli con un colpo di spugna soltanto perché, nel loro dimenarsi dall’angolino dove pure hanno contribuito a mettersi, i loro atteggiamenti e le loro reazioni ai più sembrano infantili e da teatrino, da bambino dell’asilo come spesso gli aficionados amano ripetere nei loro commenti a un pezzo la qualunque sul re senza corona né scettro, appena ruzzolato giù dal trono con un paio di tonfi assordanti. Il Papu è l’Atalanta. Lo è stato anche nel biennio da pane duro della salvezza da conquistare con le unghie e coi denti, tra Stefano Colantuono ed Edy Reja. Inutile dire che anche l’altro litigante della querelle infinita dall’intervallo col Midtjylland in avanti ha avuto la sua parte nel consentire alla squadra del sangue di elevarsi al rango delle migliori otto e per ora delle top 16 d’Europa. Il demiurgo dell’opera magna è Gian Piero Gasperini, ma è assurdo, gettando uno sguardo a prima di quel maledetto primo dicembre da spartiacque, negare che avercela fatta con l’argentino sia dipeso soltanto dal suo genio calcistico, imparagonabile a quello di chiunque l’abbia preceduto sulla panchina all’ombra della Maresana.

Nossignori, le bandiere non si ammainano nemmeno quando si stropicciano fin troppo da sole, come nel nostro caso. Non per una mera questione di riconoscenza, bensì per un’attenta e obiettiva valutazione dei fatti, più che delle parole, destinate a disperdersi nel vento anche e soprattutto quando sembrano pesanti come pietre. Gli scazzi estemporanei con l’uomo sulla tolda di comando non hanno il potere di resettare e cancellare alcunché. Non il Papu bomber della prima annata gasperiniana, quando se non la metteva lui addio. 16 gol e 15 assist per riconquistare i palcoscenici continentali a più di un quarto di secolo dall’ultima volta. Poi, oltre i numeri e i numeroni, la dedizione alla causa, il nuovo mestiere di raccordo tra i reparti, da tuttocampista pronto ad abbassarsi a portatore d’acqua. Le intuizioni del tecnico vanno riconosciute e premiate, ma senza materiale adatto all’uso, ciao. Provateci voi, a qualificarvi in Champions League arrivandoci fino al quarto di finale, come il 12 agosto scorso contro il PSG, con gli elementi che si potevano ritrovare in rosa nelle stagioni da battaglia. Nessuno di quanti adesso sbraitano contro il numero 10 che li fa incazzare, perché non si comporta come loro vorrebbero, quindi sotto dettatura di una passione naturalmente sconfinante nell’irrazionale, nella dietrologia, nei retropensieri e nella paranoia, sarebbe disposto ad assecondare la sesquipedale cagata che l’allenatore sia l’artefice unico delle fortune di un gruppo.

Il Gasp, avesse avuto Ciccio Brienza o anche Alino Diamanti, peraltro entrambi compagni sul serio del bonaerense in una Dea lontanissima dall’Olimpo, al posto del Papu, sarebbe arrivato comunque agli stessi risultati? L’asso o il fantasista medio di quell’epoca, non nella preistoria, era di quella tara. Ex punti fermi del fantacalcio per i bonus che portavano, arrivati nella Città dei Mille logori e pieni di calci presi in ogni dove. I tifosi non perdonano, convinti che la maglia basti e avanzi, ritenendo che non importi più di tanto chi la indossi. Si sono rifatti la bocca, ma non accennano a perdere l’abitudine di giudicare tutto e tutti alla luce delle emozioni del momento, specie se è brutto e cattivo, perché che mister e migliore in campo siano separati in casa è un freno a mano tirato. Il piccoletto, qui da noi, ha trasferito famiglia e progetti, anche fuori dal rettangolo verde. Che abbia disobbedito ai dettami tattici rifiutandosi di allargarsi a destra è un fatto. Che quella partita, come tutte le altre al piano di sopra, si sia potuta giocare anche grazie a lui, un altro. Incontestabile. Il rapporto può essere ricucito o strappato del tutto. Una bandiera è una bandiera. Non si discute, si ama.

La sollevazione popolare contro una story di Instagram è francamente ridicola e priva di senso, mica ha mandato affanculo qualcuno, tantomeno un intero popolo. Incommentabili, poi, le reazioni a catena a quell’esibizione canora non richiesta, giudicata strafottente, non si capisce verso chi. Ma lì la colpa è come sempre dei giornalisti, che riportano i fatti. Il Papu deve mettersi il bavaglio. I quotidiani e le tv devono tacere. Quale verità vogliono sentirsi raccontare gli atalantini? La mia è già pronta: alla domanda in premessa rispondo che ebbene sì, sto con la controparte perdente nello scontro al vertice. Sto col capitano, tutta la vita. Perché i fatti non si rimuovono con un tratto di penna. Perché è l’Atalanta. Perché mercoledì sera all’Allianz Stadium è entrato eccome, essendosi calato nel vivio del gioco e della aprtita, nel mega rimpallo (Morata-Palomino-Gomez-Bentancur-Freuler-Rabiot) del pareggio di Remo Freuler e si finge di non essersene accorti. Perché i bambini gridano il suo nome come quello di nessun altro, rendendo la loro infanzia più felice, anche se facendolo spaccano i timpani a tutta la tribuna stampa. Perché è una persona vera, non un ipocrita che si nasconde dietro a un dito o ai pro forma. Perché è vero che non può dire nemmeno la sua. Perché i panni sporchi gliel’hanno già lavati in diretta tv senza diritto di replica, anzi riempiendogli fino all’orlo il cestino avanti alla lavatrice di casa. Perché ha sbagliato e continuerà a sbagliare. Perché il mio idolo era Michel Platini, che magari per un autografo richiesto in più si scocciava e faceva lo spocchioso: il vostro, cari lettori, è l’opposto, e voi ve ne state disamorando. Perché è caduto dalla sedia gestatoria, più Papa che Papu, e voi lo state prendendo a calci.